27 gennaio 2014

Presto, mi dia una riforma elettorale

C’è bisogno di riforme… Sono almeno 20 anni che la soluzione ai cosiddetti “problemi del paese” viene individuata in questa parolina magica: “riforme”. Bisogna riformare lo Stato, la Costituzione, la legge elettorale. Le cause dei mali sembra che siano sempre da attribuire a un qualcosa di impalpabile, indefinito, impersonale, di cui nessuno ha una precisa responsabilità. Un comodo capro espiatorio che serve a distogliere l’attenzione dalle vere questioni: l’inadeguatezza del ceto politico e la “colpa” di chi quel ceto politico sceglie, ossia noi cittadini-elettori, talvolta distratti e superficiali quando decidiamo a chi affidare la gestione della cosa pubblica. Prendersela col sistema elettorale, con la forma di Governo, con l’organizzazione degli enti territoriali è il solito modo, tutto italiano, di scaricare coscienze e responsabilità. Il paradosso è che spesso le soluzioni che si propongono (e che spesso, infatti, non risolvono un bel nulla) fanno l’esatto contrario di ciò che viene sbandierato come scelta irrinunciabile. E così facendo ci ritroviamo ad affrontare continue riforme, che spesso servono solo a creare confusione, ma che poi – all’atto pratico – sono di ben poca utilità, se non addirittura dannose. Ad esempio, dopo decine di anni di onesta carriera, la legge elettorale del 1957 – basata su un meccanismo proporzionale “puro” e con l’indicazione della preferenza - è stata rottamata in nome di due principi considerati irrinunciabili: quella della governabilità e quello di poter scegliere il proprio candidato (come se prima non fosse possibile). Correva l’anno 1992 e la prima repubblica veniva sommersa dagli scandali di tangentopoli. La soluzione fu presto trovata: è tutta colpa della legge elettorale, cambiamola, andiamo a votare e il nuovo Parlamento sarà lindo e specchiato come non mai. Si passò in fretta e furia ad un sistema anomalo, con collegi uninominali a turno unico e il 25 per cento dei deputati eletti in liste proporzionali bloccate. I risultati sono ben noti. Non si ebbe certo la governabilità (la prima legislatura – 1994-1996 - durò appena due anni e quella successiva fu un continuo avvicendarsi di governi e maggioranze) e la scelta del proprio eletto era circoscritta ai pochi candidati decisi dalle segreterie delle coalizioni politiche, magari paracadutati in zone di cui ignoravano persino l’esatta collocazione geografica.
Dopo qualche anno si decise di tornare al proporzionale, riuscendo però a snaturarne completamente il senso. Con le liste bloccate le segreterie di partito si sono arrogate il diritto di scegliere direttamente i propri eletti, con il premio di maggioranza si è alterato completamente il principio di proporzionalità della rappresentanza e con le soglie si è, da un lato, imposto un obbligo di alleanze che si sono rivelate spesso di comodo e prive della necessaria condivisione programmatica, dall’altro è stata sottratta la rappresentanza politica a milioni di italiani (ad esempio la sinistra e l’ambientalismo spazzati via da un calcolo cinico dell’allora segretario del PD, Veltroni). Un sistema elettorale criticato da molti, ma che ha fatto molto comodo a chi manovrava i fili e non c’è da stupirsi se il Parlamento non aveva mai affrontato seriamente la sua revisione fino alla sentenza della Corte Costituzionale che ne dichiarava la sostanziale incostituzionalità.
Adesso – è la parola d’ordine - si cambia. Ma come si cambia? La sensazione è che tutte le volte che il legislatore è chiamato a modificare le “regole” riesca a peggiorare le cose, magari con il convinto appoggio di un’opinione pubblica abilmente suggestionata. Penso ad alcune innovazioni giustificate con l’esigenza di “ridurre i costi della politica”. E guai a sostenere che il principio – di per sé ampiamente condivisibile – rischia una strumentalizzazione pericolosa e profondamente antidemocratica. Penso alla riduzione del numero degli eletti, che, insieme alle norme per azzerare la rappresentanza dei piccoli, costituisce lo strumento perfetto per dare un potere enorme a chi ricopre un incarico pubblico. E’ noto che partecipazione e delega devono trovare un ragionevole punto di equilibrio per far sì che vi sia un’adeguata rappresentanza della stragrande maggioranza dei cittadini. La democrazia costa e pensare di ridurre gli sprechi tagliando sulla democrazia è un errore gravissimo. La presenza di un’opposizione vigile potrà essere un’arma efficacissima per evitare che chi amministra faccia scelte sbagliate e dispendiose. E sarò ben contento, come cittadino, di avere un sistema amministrativo e di governo che non consenta a nessuno – nemmeno se vicino a me ideologicamente e politicamente – di decidere pressoché in solitudine. E’ già successo con la truffa della riduzione del numero dei consiglieri comunali. Qualcuno pensa davvero che l’operazione – tutta mediatica – abbia prodotto dei risultati apprezzabili in termini di risparmio? O non c’è forse il rischio che, con consigli comunali ridotti a consigli di amministrazione, da qualche parte ci siano appalti, opere pubbliche e sprechi a vario titolo per i quali l’azione di controllo si sia gravemente indebolita?
Per non parlare della “soppressione” (o presunta tale) di organi o enti giudicati “inutili”. Pensiamo alle province, sulla cui effettiva utilità non mi soffermo, ma la cui trasformazione in organi elettivi di secondo grado non ne ha certo eliminato la struttura (che è il vero costo, ma che altrimenti andrebbe comunque trasferito ad altro organo) e la sua gestione viene “spartita” tra le forze politiche più influenti (ovviamente con doppio incarico e rafforzamento di quel potere territoriale occulto di cui si nutrono le forme peggiori del clientelismo). In modo analogo si propone di trasformare il Senato in un organo appannaggio delle regioni. Anche in questo caso doppi incarichi e personaggi politici che diventano sempre più influenti.

Ma per tornare alla legge elettorale, frutto dell’accordo tra Renzi e Berlusconi (e già questo la dovrebbe dire lunga sulla qualità del prodotto), sembra persino peggio del cosiddetto Porcellum che vorrebbe sostituire. Come al solito è figlia di un vecchio vizio della politica italiana, quello di cucire le leggi su misura per chi le scrive e non di una loro astratta funzionalità. E così le soglie si individuano sulla base dei sondaggi (e quindi Forza Italia vuole una soglia per far fuori il nuovo centrodestra, così come Italia dei Valori accolse di buon grado l’innalzamento della soglia per le europee per cannibalizzare i principali “competitor” a sinistra del PD) e i premi di maggioranza si basano sull’esigenza di colmare con una distorsione della rappresentatività la mancanza di consenso. Insomma, anziché trovare un modo per costruire un’alleanza basata su accordi programmatici (anche da far nascere in Parlamento, come prevede la nostra forma di governo), si preferisce “scippare” ad una legittima rappresentanza parlamentare (con soglie e premio di maggioranza) il numero di seggi necessario a raggiungere una maggioranza parlamentare. Si tratta dell’ennesima “legge truffa”, che aumenterà la disaffezione dei cittadini verso le istituzioni. Magari, alle prossime elezioni, assisteremo agli show di politici che si stracceranno pubblicamente le vesti per il preoccupante calo di affluenza alle urne. Una preoccupazione ovviamente simulata. Quello che preoccupa molti politici non è l’astensionismo, ma la gente che vota, soprattutto se usa il cervello quando entra nella cabina elettorale.

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