8 marzo 2013

Sistemi elettorali e meccanismi istituzionali. Paradossi, finzioni e imbrogli.


Costruire una buona legge elettorale non è semplice. L’idea è quella di costruire un impianto che sia in grado di garantire alcuni principi fondanti di un sistema democratico efficiente: tra questi, in particolare, rappresentanza e governabilità. In realtà solo il primo – la rappresentanza – è strettamente connesso alla democrazia. Il secondo potrebbe vivere tranquillamente anche in regimi autoritari (anzi è proprio in quelli che non soffre particolari problemi). Tra i due – se si vuole salvaguardare la democrazia – la priorità deve essere data, senza se e senza ma, alla rappresentanza. Rappresentanza che, invece, viene sempre più penalizzata e spesso proprio con motivazioni apparentemente condivisibili. Ho già avuto modo di esprimermi sulla sesquipedale sciocchezza – sposata demagogicamente ormai da tutti, da Grillo a Berlusconi, da Bersani a Monti – sull’esigenza di ridurre gli sprechi attraverso il taglio del numero degli eletti, in una continua lotta al ribasso, come in un suk arabo. “600 sono troppi? Facciamo la metà: 300”. Ma un altro potrà dire “300? Esagerato. Ne bastano 200”. “Perché non 100, allora?” Dirà prontamente qualcun altro. In una perenne rincorsa populista al taglio della casta. Maturando, più o meno consapevolmente, la convinzione che i politici (e la politica) siano un inutile spreco di soldi pubblici. E che per risolvere i problemi è sufficiente eliminarne la maggior parte. Per carità. Purtroppo di politici inutili e che spesso costano tanto alla collettività, amministrando male e talvolta distraendo fondi pubblici, ne abbiamo avuti sin troppi. Ma siamo certi che la mera riduzione numerica risolva il problema? Il mio sospetto è che a salvarsi dalla sforbiciata siano più facilmente quelli che praticano la politica meno “nobile”. Quella clientelare, quella affaristica, quella degli accordi sottobanco. Un tipo di politica che riesce ad incanalare agevolmente decine di migliaia di voti, frutto di favori, promesse, clientele. Sono quelli disposti ad investire centinaia di migliaia di euro per andarne a percepire molti meno (si pensi alle monumentali campagne elettorali per diventare consiglieri comunali a Roma). Per quale motivo? Spirito di servizio? E se fosse davvero così – e ho i miei dubbi – non sarebbe comunque una politica riservata a pochi benestanti? Spero che i partiti riflettano prima di proseguire questa crociata per ridurre il numero degli eletti, senza tenere conto che è di un altro tipo di cura che ha bisogno il nostro sistema istituzionale, a cominciare dal rigido divieto di doppi incarichi. Perché dovrei preoccuparmi di avere troppi consiglieri comunali e non dell’enorme peso politico che avrà un sindaco eletto consigliere regionale o parlamentare? Per non parlare delle candidature multiple o in presenza di altri incarichi istituzionali? Perché non proibire tassativamente tutte queste forme di condizionamento degli equilibri politici?
Per quanto riguarda il rapporto tra governabilità e rappresentanza, bisognerebbe ammettere – finalmente – il totale fallimento di una legge nata con l’obiettivo di dare governabilità, anche a scapito della rappresentanza. La governabilità a quanto pare non è riuscita a garantirla. Non ci è riuscita nel 2006 con la nascita di un debolissimo governo Prodi. E addirittura neppure nel 2008, nonostante la straordinaria affermazione di Berlusconi, che però si è dovuto dimettere nel 2011, lasciando spazio al governo tecnico di Monti. Infine nel 2013, con un ramo del Parlamento saldamente in mano alla coalizione del centro sinistra, ma col Senato diviso in tre. E, a fronte di questa ingovernabilità, quanto è stato alterato il principio della rappresentanza? Vediamolo attraverso i numeri della Camera. I partiti del centro sinistra riescono ad aggiudicarsi un deputato ogni 30mila voti, pari allo 0,08 per cento dei voti. Addirittura al Centro Democratico sono bastati meno di 28mila voti per ognuno dei sei deputati ottenuti con uno striminzito 0,5 per cento su base nazionale. E’ andata decisamente peggio all’opposizione. Pdl, Grillo e gli altri, infatti, per avere un deputato hanno dovuto racimolare tra i 73mila e gli 80 mila voti, con percentuali dello 0,22 e 0,23 per cento. La Destra, con 220mila voti e lo 0,6 per cento, pur essendo in una coalizione che ha preso quasi gli stessi voti della coalizione vincente, non è riuscita ad avere neppure un deputato.
I più penalizzati sono stati quelli che, non facendo parte di raggruppamenti che hanno superato la soglia dell’otto per cento, si sono visti negare la rappresentanza anche in presenza di valori percentuali interi. Fare per fermare il declino ha preso 380mila voti, pari all’1,1 per cento (l’equivalente di 13 deputati per una forza di centrosinistra e di 4 o 5 deputati per una delle forze di opposizione). Il prezzo più altro l’ha pagato Rivoluzione Civile. Con 765mila voti e il 2,2 per cento non ha portato a casa neppure un eletto. Con gli stessi voti i parlamentari eletti sarebbero stati 27 in maggioranza e 10 all’opposizione. Certo, una piccola lesione del principio di rappresentanza. Ma vuoi mettere il vantaggio della governabilità?

Elezioni Camera dei deputati 2013. Rapporto voti/eletti delle forze politiche.

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