13 novembre 2012

La colpa di andare in bicicletta


C’è una frase che mi riecheggia in testa continuamente. “Eh, però, questi ciclisti che stanno in mezzo alla strada…”. Fa il paio con “Sì, sì, ma andava in giro con certe minigonne”. Affermazioni che, più o meno inconsciamente, portano a giustificare e deresponsabilizzare chi commette reati gravissimi. Una ragazza di 17 anni è morta nei giorni scorsi, uccisa da un SUV che è piombato su un gruppo di scout in bicicletta. Il SUV, a quanto sembra, andava velocissimo. Ci ha messo 300 metri a fermare la sua folle corsa, trascinando la ragazza per 200 metri. Probabilmente non era un extracomunitario, altrimenti l’avrebbero messo nel titolo e questo ci avrebbe sollevati tutti. Certo, il solito rumeno. Per fortuna era risultato positivo al testo alcolemico. Questo ci tranquillizza un po’. Beh, era ubriaco fradicio. L’ultimo appiglio per salvare il nostro modello mentale sarebbe stato, appunto, “questi ciclisti che stanno in mezzo alla strada…”. Perché questo? Perché la nostra cultura della sicurezza stradale si basa su un assioma – tutto da dimostrare e sulla cui genesi preferisco non pronunciarmi – che considera il mezzo motorizzato il padrone indiscusso della rete viaria. Fatti salvi alcuni distinguo, e anche qualche rivalità, tra le varie tipologie (auto, moto, camion), la strada appartiene ai “potenti” - nella doppia accezione, in cavalli e in (presunto) peso sociale – e gli altri – in primis ciclisti e pedoni - sono ospiti appena tollerati, se non proprio indesiderati.
Da questa visione distorta nasce la convinzione, nell’automobilista medio, che il ciclista sulla strada sia un fastidioso ostacolo alla propria legittima esigenza di mobilità. L’automobile ha sempre la precedenza, anche se la sto usando per andare all’outlet e il ciclista sta andando al lavoro. Chi va in bici dovrebbe farsi da parte, non essere d’intralcio. Non ci si aspetta che lo faccia un camion o un’automobile che va più piano di noi. Un ciclista, sì. Lui dà fastidio. E se sono un gruppo, levati cielo, diventa un attentato alla Costituzione. Va tutto bene. L’automobilista che lascia l’auto in doppia fila. Il corteo nuziale lento e strombazzante lungo le vie della città. Il raduno di moto o auto d’epoca rombante e allegro che blocca il traffico. Tutto, tranne i ciclisti. Loro non hanno diritto di cittadinanza e, se proprio vogliono andare per strada, non devono dare fastidio. Lo stesso codice della strada che per gli automobilisti è a malapena un compendio di suggerimenti, consigli e linee di indirizzo, diventa una norma cogente ed inderogabile per i ciclisti, che devono attenersi scrupolosamente ad ogni singolo comma del codice, la cui interpretazione diventa particolarmente rigorosa. Ed è così che il ciclista dovrebbe stare sul margine destro della carreggiata, preferibilmente a destra della linea bianca, senza tenere conto della pericolosità di una simile condotta per un veicolo a due ruote, considerando il non impeccabile stato dell’asfalto delle nostre strade.
Questa “cultura” autocentrica è il terreno fertile per i comportamenti più sconsiderati e pericolosi. La sola presenza del ciclista sulla strada è già una sua “colpa” ed una mia deresponsabilizzazione per l’eventuale azzardo del mio sorpasso. Quanti automobilisti non si preoccupano se lasciano pochi centimetri tra loro e il ciclista quando lo superano? Loro non corrono alcun pericolo ben protetti all’interno del proprio confortevole SUV. Quei pochi centimetri per il ciclista possono determinare la perdita dell’equilibrio con conseguenze anche gravi. “Ma stava in mezzo alla strada”. E probabilmente non era “in mezzo” era “sulla” strada, magari anche in prossimità del margine destro (come prevede il codice). Però, nella nostra testa, un ciclista sulla strada è sempre in mezzo. E se poi fosse davvero in mezzo questo legittima il rischio di ucciderlo?
Ed è esattamente quello che ha fatto il guidatore del SUV a Casalmaiocco. Non un delinquente, non un extracomunitario. Sarà magari un libero professionista, che se ne andava a spasso in una giornata festiva. Anche se ubriaco, non può non aver visto il gruppo di ciclisti. Stava tranquillamente oltre i limiti di velocità (ma questo, come automobilisti, lo consideriamo sempre un comportamento legittimo, sono i limiti ad essere troppo bassi) e non aveva intenzione di rallentare. Erano i ciclisti in torto. E lui ha deliberatamente deciso di mettere a repentaglio la loro vita per non rinunciare al proprio diritto di andare alla velocità giudicata più consona alle sue esigenze. Non è una semplice colpa. E’ una responsabilità più grave. C’è il dolo, anche se solo eventuale. E’ evidente che non c’era la volontà di uccidere, ma non poteva mancare la piena consapevolezza del rischio di farlo. Vale il principio giuridico della sentenza di condanna – per omicidio volontario con dolo eventuale - dell’amministratore della ThyssenKrupp per il rogo in cui erano morti alcuni operai. Nessuno pensa che l’amministratore volesse la morte degli operai. Il senso della sentenza è che chi ha deciso di non installare i sistemi di sicurezza abbia accettato di mettere a repentaglio la sicurezza delle persone, subordinato consapevolmente un determinato bene (la vita umana) a un altro (probabilmente il risparmio per l’azienda). Nel caso del nostro SUV il bene subordinato è sempre la vita umana, quello prevalente è portare piuttosto in fretta la sua inutile testa... vuota da qualche parte.

1 commento:

  1. grazie di quanto scritto mi risponde al meglio, meditamare@libero.it www.meditamare.it grazieee, matteo

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