24 marzo 2010

L'articolo incriminato

Braccia rubate all’agricoltura
Come si fa a costruire in zona agricola senza essere imprenditori agricoli e senza disporre del lotto minimo stabilito dalla normativa vigente? La risposta è semplice: basta ricoprire l’incarico di primo cittadino ed il gioco è fatto. E’ quello che è successo ad Alfredo Galli, il quale, alla fine del 2004, ha avuto un regolare permesso di costruire per ben due immobili. Uno destinato ad abitazione ed un altro destinato a ricovero degli attrezzi. E, a guardare i progetti, uno dei più lussuosi ricoveri per attrezzi che la millenaria storia dell’agricoltura ricordi. Ma, potrebbe chiedersi qualcuno bene informato, come è possibile che il comune abbia rilasciato un permesso di costruire quando da oltre un anno era stata approvata una legge che elevava a 30mila metri quadrati il lotto minimo per la costruzione di immobili ad uso agricolo? Una norma – si badi bene – che aveva come ratio ispiratrice proprio quella di evitare che i furbi sfruttassero norme di settore per costruirsi ville faraoniche. Il principio della norma è (sarebbe): sei agricoltore? lavori la terra? bene, è giusto che tu possa edificare in zona agricola, perché bisogna incentivare quel tipo di economia e la valorizzazione dei terreni agricoli. Non fai l’agricoltore? Allora non fare il furbo e comprati un terreno edificabile.
Invece ecco che, da qualche parte, spunta una bella richiesta di permesso di costruire che risale addirittura al 2000. La domanda - siglata dal padre del sindaco, poi deceduto - è rimasta nel cassetto dell’ufficio tecnico per oltre quattro lunghi anni. Di quel periodo non si ha traccia di un sollecito, di una lettera, di una richiesta di riscontro. Nulla. La domanda del primo cittadino non trova alcuna risposta. Ora, chi conosce le norme in materia di edilizia e di urbanistica sa bene che, in assenza di risposta, le domande si intendono respinte (silenzio-diniego) e l’inerzia del richiedente comporta l’automatica decadenza della domanda. Non nel caso del nostro sindaco. In questo caso la domanda, della cui effettiva presentazione qualcuno più malizioso di noi potrebbe dubitare, pare potesse valere ad libitum. Ma, potrebbe obiettare il solito noioso conoscitore di leggi e codici, anche se la domanda fosse davvero ancora valida, il fatto che sia intervenuta una norma a modificare i requisiti per il rilascio del titolo edificatorio dovrebbe comunque produrre i suoi effetti e, in assenza di quei requisiti, il permesso non l’avrebbero dovuto rilasciare. Tempus regit actum salmodiavano i latini, che di diritto se ne intendevano alquanto. Ma i tempi, rispetto a Cicerone, sono cambiati parecchio (e in peggio, purtroppo) e adesso le leggi non si applicano, si interpretano. E’ così – ha spiegato con accalorata convinzione il responsabile dell’ufficio tecnico (sì, lo stesso che ha scritto le osservazioni al piano regolatore un anno dopo averle protocollate) – che bisogna interpretare la norma transitoria della legge del 2003. Ma se uno decide di andarsi a leggere davvero il testo, scopre che la norma richiamata dal tecnico fa riferimento – e sulla base di una serie di condizioni che non devono comunque configgere con la norma nazionale (di rango superiore) – ad un arco temporale ben preciso: 31 gennaio 2002, 30 luglio 2002. E’ sufficiente leggere il combinato disposto delle due leggi regionali in questione. Non sono previste deroghe, neppure per i sindaci che, con la scusa di realizzare un fabbricato agricolo, vogliono tirare su due belle ville. Non contento l’azzeccagarbugli dei nostri tempi decide di tirare fuori l’asso dalla manica: una domanda di permesso di costruire del 1999 e il relativo permesso del 2000. A parte la gravità di tirare fuori le carte all’ultimo momento - ché se si chiede “l’intera documentazione”, intera deve essere, altrimenti si mettono i consiglieri nella condizione di dare giudizi sbagliati sulle questioni che vengono esaminate - in questa circostanza il coniglio tirato fuori dal cappello appare un po’ malaticcio e non risolve affatto la questione anzi, forse, la aggrava. Infatti, se davvero c’era un permesso di costruire nel 2000 per quale ragione, sempre nel 2000, l’interessato avrebbe avvertito l’esigenza chiedere un nuovo permesso di costruire? Al limite avrebbe avuto senso una variante o comunque un qualsivoglia atto che facesse riferimento al diritto già acquisito. Invece nella richiesta del 2000 non c’è nulla di tutto questo. La sensazione è che, come spesso capita, chi ha (e dà) le carte giochi scorretto. Noi, chiedendo di affrontare la questione in consiglio comunale, speravamo di levarci qualche dubbio, invece a quelli che avevamo se ne sono aggiunti di nuovi. Invidiamo quindi la granitica certezza dei consiglieri di maggioranza, i quali, nonostante le evidenti discrepanze della ricostruzione dei fatti, davano per buona qualunque versione legittimasse l’edificazione dei due imponenti edifici in zona agricola. Anzi tutti a gridare contro l’accanimento giustizialista nei confronti del povero (ex) sindaco e a prendere per oro colato tutto quello che diceva il tecnico. La nostra proverbiale diffidenza però ci ha portato a chiedere i documenti tirati fuori all’ultimo momento (domanda e permesso del 1999 e del 2000) e, indovinate un po’, quegli atti non esistevano. Il consiglio comunale si è quindi espresso dando per buona una ricostruzione dei fatti basata sul nulla. Del rispetto della legge, dell’imparzialità della pubblica amministrazione, della legalità, dei diritti, in realtà non interessava nulla a nessuno. La vera tesi sostenuta dalla maggioranza è, seppur stravagante, di grande efficacia: ma, insomma, in questo paese tutti fanno i furbi e uno – solo perché, poverino, è il primo cittadino – dovrebbe rinunciare a praticare lo sport nazionale? Quella sì che sarebbe una vera e intollerabile ingiustizia.

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