19 settembre 2007

L'ambientalismo scomodo

L’ambiente è diventato scomodo. L’ambientalismo ha smesso i panni della moda un po’ stravagante, ma in fondo innocua ed è diventato un ostacolo per i sostenitori di un modello economico non solo superato, ma decisamente pericoloso. E così, da qualche anno, è partita l’offensiva “antiambientalista” con il chiaro obiettivo di screditare le tesi dell’ambientalismo, sia che abbiano basi etiche, sia che siano supportate da dati scientifici.
Intanto bisognerebbe fare un primo passaggio e mettere in evidenza la distinzione tra un ambientalismo etico, che prescinde dalle considerazioni di carattere socio-economico, e che ritiene giusta una tutela dell’ecosistema in quanto tale. Per il suo intrinseco valore, non certo misurabile con le unità di conto a cui siamo abituati, ma non per questo di minor pregio. Molti valori col passare degli anni hanno conquistato un posto negli ordinamenti giuridici perché ritenuti meritevoli di salvaguardia. Si è cominciati con la vita umana e, man mano che la sensibilità sociale è cresciuta, il bisogno di tutela si è esteso sempre di più, fino a ricomprendere il pudore o i beni culturali. Su questo aspetto c’è poco da discutere - infatti c’è chi pensa che i beni culturali non siano meritevoli di tutela, soprattutto se non sono “economicamente rilevanti” – e si tratta semplicemente di stabilire quale sia il livello di sensibilità di un popolo e predisporre leggi che siano in linea con quella sensibilità.
Un po’ più delicata è la questione sugli aspetti economici e scientifici delle questioni ambientali. Le dottrine economiche arrivano sempre in colpevole ritardo rispetto alle istanze sociali e questo ha permesso per lungo tempo al settore produttivo di non tenere conto dei “costi esterni” legati alla propria attività. I costi esterni sono le conseguenze negative che un’attività comporta per la collettività. In passato essi sono sempre stati sopportati dai cittadini o semplicemente vivendo il disagio (o il rischio per la salute), oppure attraverso l’intervento economico dello Stato per ridimensionare i danni. In seguito sono state introdotte norme più severe che impongono alle aziende di farsi carico di almeno una parte di quei costi. Questo per quanto riguarda un’impostazione strettamente economicista. Un’impostazione che – comprensibilmente, sotto questa tipologia di approccio – non giustifica stanziamenti elevati per intervenire su qualcosa che viene considerato semplicemente un fattore di rischio e sulle cui possibili conseguenze non vi è una visione unanime da parte del mondo scientifico. L’approccio è ovviamente molto cinico ed è lo stesso che ebbe l’Enimont quando si cominciavano a prendere in considerazione i possibili rischi legati alla produzione industriale: per loro non c’era una valutazione del rischio che giustificasse costosi interventi di messa in sicurezza, che incidevano sul profitto dell’azienda. Le drammatiche conseguenze di questo atteggiamento irresponsabile in termini di malattie e di vite umane sono ben note e dovrebbero far riflettere su quanto possa essere miope l’atteggiamento del mondo economico sulle questioni legate alla salute e all’ambiente.
Altre considerazioni vanno fatte sotto l’aspetto scientifico. Sotto questo profilo intanto desta stupore questa spaccatura del mondo accademico su cause e possibili conseguenze dei cambiamenti climatici. Nessuno pensa che la climatologia sia una scienza esatta, ma viene il sospetto che l’interpretazione dei dati venga stirata da una parte o dall’altra a seconda di quale strategia energetica si voglia avvantaggiare. Così è evidente che chi è legato economicamente all’uso del carbone nutre simpatia per i negazionisti e chi ha interessi nella produzione nucleare apprezza la tesi di chi sostanzialmente conferma le preoccupazioni delle più autorevoli comunità scientifiche sui cambiamenti climatici, ma che considerail nucleare una sicura forma di produzione alternativa. I “catastrofisti” sarebbero supportati dalle grandi lobby dell’eolico, del fotovoltaico e delle associazioni ambientaliste. Analisi suggestiva, ma che non tiene conto di un dato: come mai potentati economici come quelli legati all’estrazione dei combustibili fossili (in grado di dar vita a conflitti armati per il controllo politico-economico delle zone strategiche del globo) riuscirebbero a portare dalla loro parte un modesto numero di studiosi, mentre le non proprio facoltose associazioni ambientaliste riescano ad avere nel proprio libro paga i più autorevoli esponenti del mondo scientifico e siano finanche riusciti a portare dalla loro addirittura l’Office of Net Assessment del Pentagono, che non è esattamente l’ufficio studi di Greenpeace? Varrebbe la pena rifletterci e non continuare a ballare allegramente e inconsapevolmente, proprio come i passeggeri del Titanic la notte del 15 aprile del 1912.

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