22 dicembre 2005

Roccasecca: tragica fatalità o dramma evitabile?

Un giorno qualunque di una settimana qualunque di un pendolare qualunque. Il treno 3360 viaggia con 131 minuti di ritardo. Non è “the day after” la tragedia di Roccasecca. E’ un giorno qualunque di una settimana qualunque e il treno 3360 – per imprecisati motivi – viaggia con 131 minuti di ritardo. E’ singolare che un ritardo degno delle diligenze che attraversavano le praterie del nord America venga comunicato con la accuratezza di quel minuto in più oltre i 130. Potremmo chiamarlo – con un inquietante ossimoro – un ritardo di precisione. Ma quel ritardo non è un ritardo eccezionale. E’ un ritardo qualunque di un giorno qualunque di una settimana qualunque. Fa parte del calvario quotidiano di un numero sempre crescente di pendolari che si affidano – spesso più per necessità che per scelta – al trasporto pubblico per recarsi al lavoro. La qualità del servizio ferroviario sulle linee dei pendolari (al nord, al centro, al sud, non c’è molta differenza) – linee di serie B per una chiara scelta, vuoi aziendale, vuoi di politica dei trasporti – è evidentemente indecorosa. Anzi termini come “qualità” e “servizio” potrebbero persino apparire impropri, attese le circostanze.
Ma da cosa nasce il pendolarismo? Perché centinaia di migliaia di persone scelgono di percorrere lunghe distanze ogni giorno per andare a lavorare?
Il fenomeno – essendo tutt’altro che marginale – va inquadrato in un contesto molto ampio e deriva dalle politiche urbanistiche e abitative in stretta connessione con aspetti sociali ed economici. In estrema sintesi si può dire che da un lato c’è stata una lenta ma costante emorragia demografica dalla Capitale all’hinterland, dovuta a diversi fattori tra cui l’andamento del mercato immobiliare, la scelta di pianificazioni urbanistiche prive di programmazione infrastrutturale che ha portato a costruire moltissimi insediamenti abitativi nei comuni della provincia (senza tenere conto della domanda di mobilità che ne sarebbe conseguita), il fenomeno dell’abusivismo edilizio, spesso con la connivenza di amministratori compiacenti. Dall’altro lato c’è stata una trasformazione dell’economia territoriale che ha visto il forte indebolimento di alcuni settori “periferici” (in particolare quello agricolo) e il rafforzamento dei settori “romacentrici” (in particolare il terziario), con la conseguenza che molte città della provincia hanno smesso di avere una propria economia e sono diventate “satelliti” della Capitale e i suoi abitanti si sono trasformati in pendolari.
Nessuno ha pensato di governare (seriamente, almeno) questo fenomeno attraverso la realizzazione di infrastrutture e servizi adeguati alle importanti trasformazioni e il trasporto ferroviario, l’unico mezzo che con una qualche efficienza consentiva ai pochi (allora) viaggiatori di spostarsi da e verso Roma, non solo non è stato oggetto dei necessari interventi di innovazione tecnologica e di adeguamento, ma è stato progressivamente sempre più trascurato.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti e l’atteggiamento dei pendolari oscilla (sarà per questo che si chiamano pendolari) tra la malinconica rassegnazione e la rabbia incontenibile.
Spero che nessuno cominci a scomodare la fatalità o la sfortuna per giustificare il drammatico incidente di Roccasecca, magari scaricando tutto sui macchinisti. Sarebbe troppo facile e da irresponsabili. Quando si gestisce un servizio “al minimo”, quando i guasti meccanici sono la norma e non l’eccezione, quando i treni viaggiano sempre in condizioni di sovraffollamento disumane, quando gli orari sono un optional e le stazioni luoghi di degrado, non si può chiamare in causa il destino. Queste sono scelte – politiche, soprattutto – che attengono la vita di tutti noi. E se chi ci governa – Berlusconi da un lato con le sue faraoniche opere pubbliche, ma anche Marrazzo dall’altro che è titolare del contratto di servizio con Trenitalia – decide che la politica delle infrastrutture e dei trasporti non ha tra le proprie priorità l’ammodernamento, il potenziamento, la messa in sicurezza delle linee ferroviarie regionali e locali, fa una scelta chiara e legittima, ma sicuramente non condivisibile.
Né si può dire, come avviene spesso, soprattutto nelle iniziative del centro-sinistra, che bisogna fare la “cura del ferro” e che la cosa più importante è quella di potenziare il trasporto pubblico, e poi – in bilancio – stanziare cifre irrisorie alla bisogna. Le politiche dei trasporti si fanno coi bilanci e con gli stanziamenti e non con le parole. E allora appare del tutto incongruente che la Regione Lazio, per bocca di gran parte dei suoi esponenti, esprima soddisfazione perché il CIPE dia il via libera ad un’opera come la bretella Cisterna-Valmontone che costa 700 milioni di euro, ma faccia ben poco (anche sul piano degli investimenti) per dare ai pendolari un servizio efficiente. La Regione Liguria ha denunciato Trenitalia per inadempienza. Cosa aspetta Marrazzo a farsi carico dei sacrosanti diritti dei pendolari del Lazio?
Va infine sottolineato che, almeno nel centrosinistra, sembrano essere tutti concordi nel dichiarare la necessità di correggere lo squilibrio modale tra gomma e ferro in cui l’Italia vanta un ben poco invidiabile primato. Peccato che, in palese contraddizione con questi intendimenti, vengano caldeggiati interventi infrastrutturali che vanno nella direzione opposta, non solo per quanto riguarda il modello di trasporto, ma il modello produttivo e di consumo, perché non solo dobbiamo trasferire le merci dalla strada alla ferrovia, ma dobbiamo anche smettere di farle viaggiare queste benedette merci. E su questo non si può che dar ragione a Beppe Grillo quando dice che la Danimarca esporta migliaia di tonnellate di biscotti per gli Stati Uniti mentre gli Stati Uniti esportano migliaia di tonnellate di biscotti in Danimarca e si chiede sconsolato “Perché non si scambiano la ricetta?”.


Tullio Berlenghi

5 dicembre 2005

La variante al prg di Labico

Ritengo che l’iniziativa di tenere un’assemblea pubblica di presentazione delle proposte in materia urbanistica elaborate dalla giunta comunale sia stata un’opportunità importante e apprezzabile e mi ha fatto piacere vedere una certa partecipazione da parte dei labicani, anche se – attesa l’importanza della questione – sarebbe stato lecito aspettarsi un pubblico molto più nutrito. Io ho approfittato ben volentieri di questa possibilità di confronto per esprimere le mie perplessità sull’impostazione generale del piano.
L’ho presa forse da lontano, ma ho ritenuto giusto basare le mie riflessioni sulla storia sociale ed urbanistica di un paese che è passato nel giro di un paio di generazioni da un’economia prevalentemente agricola ad una dipendenza economica pressoché totale da altri centri economici, sia per tipologia (in prevalenza terziario e servizi) sia per localizzazione (sostanzialmente Roma). Altri fattori – come il mercato immobiliare – hanno sancito il mutamento di Labico in “residenza per pendolari”, e la conseguente trasformazione urbanistica è stata rapida e devastante: abusivismo, edificazioni senza regole, senza criteri e, talvolta, senza servizi essenziali, hanno caratterizzato l’espansione edilizia degli ultimi decenni. E, per stessa ammissione dei rappresentanti istituzionali, poco o nulla è stato fatto in termini di opere di urbanizzazione e, soprattutto, per la realizzazione degli standard urbanistici che il precedente piano regolatore prevedeva (piazze, aree verdi, servizi per la collettività, ecc.). Le proposte avanzate con questo aggiornamento alla variante urbanistica sembrano purtroppo seguire la strada del passato e si ipotizza – senza imbarazzo – di far passare la popolazione labicana dai 2500 abitanti del 1992 ai 7500 previsti per il 2012, ossia di triplicarla nel giro di vent’anni, con un preoccupante consumo di territorio, con un evidente aumento del disagio complessivo (si pensi al prevedibile ingolfamento dell’asse viario della Casilina) e senza alcuna garanzia che i servizi in senso lato non rimangano gli stessi che già erano insufficienti per i 2500 abitanti del ’92.
Marc Augè, celebre sociologo e antropologo francese, ha coniato un termine felice per descrivere quei luoghi – contrapposti ai luoghi antropologici classici (città, mercati, teatri) – caratterizzati dalla mancanza di identità e di relazioni: i nonluoghi. Luoghi dove moltissime individualità si incrociano senza incontrarsi, senza entrare in relazione. I quartieri dormitorio e le borgate fanno parte di questa categoria. E Labico – con una programmazione urbanistica così spregiudicata - rischia di diventare un paese-dormitorio, quindi un nonluogo, destinato a perdere quel poco che le rimane di identità, di socialità e di storia.
L’altro elemento che mi preoccupa del governo del nostro territorio è l’individuazione – in una delle poche zone ancora risparmiate dal cemento (la zona dei Casali e di Valle Fredda) - dell’ennesima arteria stradale di dubbia utilità, dai costi elevatissimi e che distruggerebbe quel poco di verde e di aree agricole rimaste a Labico: l’innesto del raccordo stradale Cisterna-Valmontone. So bene che questa opera dipende in misura modesta dall’amministrazione comunale, ma non riesco a condividere la descrizione entusiastica che il sindaco ha fatto dell’intervento e dei suoi effetti sulla nostra economia.
Credo quindi che le priorità siano:
bloccare in tutti i modi la realizzazione della bretella Cisterna-Valmontone e chiedere alla Regione Lazio di investire quelle risorse per migliorare il trasporto ferroviario della linea Roma-Cassino e il trasporto pubblico della zona;
realizzare tutto quello che non è stato fatto negli ultimi anni in termini di standard urbanistici, servizi, aree verdi, strade, piazze, marciapiedi, illuminazione, impianti idrici e fognari, scuole, asili nido, stazione ferroviaria e tutto quanto può restituire a Labico la dignità di una Città vera e sottrarla al degrado dellla borgata;
puntare – in futuro – ad un’edilizia di qualità e a interventi che puntino soprattutto alla riqualificazione e al recupero urbanistico dell’intero territorio, con attenzione anche al centro storico, che potrebbe tornare ad essere il centro vitale e sociale di Labico.
Troppo spesso ci si riempie la bocca con parole come “sviluppo”, “crescita”, “incremento”, pensando che siano portatori di benefici e vantaggi. Questo, però, non è vero e, quando è vero, lo è solo in parte. Si pensi all’imprenditore avicolo che commercia uova. Egli penserà che lo “sviluppo” della sua azienda aumenterà raddoppiando il numero di galline per capannone. Avrà così indubbiamente una “crescita” della produzione e un “incremento” dei profitti. Per lui, quindi, un bel vantaggio. Un po’ meno per le galline, a cui lo spazio vitale viene drasticamente ridotto. Ecco, non vorrei che a Labico facessimo la fine di quelle sfortunate galline ovaiole…


Tullio Berlenghi

Alle colonne d'Ercole

Alle colonne d'Ercole
La mia ultima avventura